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martedì 1 novembre 2011

ricordare le vittime, non la vittoria; vedere le radici della guerra

Ho già espresso sincera adesione alla anti-celebrazione della vittoria ("Disarmare la ragione armata", in La nonviolenza è in cammino, 23 ottobre), ma devo discutere, per amore non di contrasto, ma di ricerca e di chiarimenti, l'articolo odierno di Pasquale Pugliese.



Il movimento nonviolento non è pacifista: è nonviolento. Il pacifismo è troppo poco. Anche il bellicista fa la guerra per imporre la sua pace. Si può essere contrari alla guerra anche per comodo egoismo, e utilizzare altre violenze. La guerra ripugna all'essere umano sano, anche a chi vi si rassegna, la ritiene fatale, e persino vi collabora costretto controvoglia.


Ma la guerra è soltanto conseguenza e strumento delle violenze strutturali e culturali. La nonviolenza lavora su questo due piani, contro le radici della guerra. E' alternativa alla violenza, non alla guerra, se non come buon effetto successivo.


Non mi pare che la guerra oggi sia cresciuta. I dati dicono che quantitativamente le guerre sono diminuite. Sono terribilmente cresciuti gli strumenti bellici ultradistruttivi, e il pericolo relativo. Ma mi pare molto diminuito il senso di fatalità con cui le popolazioni, fino a 100 e anche 50 anni fa, pativano rassegnate le decisioni belliche dei potenti, come un doloroso fenomeno naturale. Il mito della violenza rivoluzionaria decisiva e rigeneratrice è molto svanito: le nuove rivoluzioni fanno conto più sui mezzi nonviolenti popolari che su quelli violenti.


Avvengono atti violenti, ma le varie civiltà umane confidano nella violenza diretta meno che nel passato. In Italia gli omicidi privati sono in continuo calo. Forse non è vero che l'uomo sia "più antiquato" di ieri, e che "nessun salto di civiltà" sia avvenuto. Forse non salti, ma faticosi cammini.


La cultura dei Diritti Umani entra nelle mentalità correnti, certo con gravi limiti: è "detta", proclamata (che non è poco!), ma assai meno rispettata e applicata; è intesa più come individualismo che come giustizia e solidarietà. Ma è il carattere più positivamente umano del nostro tempo.


Rimane la violenza delle diseguaglianze feroci, dell'industria militare che "deve" suscitare guerre, della finanza criminale che conduce la fredda guerra di sfruttamento e di fame; rimane l'idea (anche nella sinistra-centro) che la politica è indissolubile dalla guerra (idea denunciata in "Stato e guerra" di Krippendorff; vedi interpretazione deformante dell'art. 11 Costituzione); rimane la disorganizzazione dei movimenti e della cultura nonviolenta.


Proprio qui è il punto: noi non dobbiamo tanto maledire la guerra maledetta, ma agire nello smascherare e mostrare a tutti la violenza incarnata:


1) nelle economie disumane e nelle discriminazioni giuridiche;


2) nelle culture violente: quelle antropologie, filosofie della storia, nichilismi, che danno valore di normalità a ciò che viola la prima norma della vita (Albert Schweitzer): vivere insieme, e non contro.


Grazie a chi ci aiuta, anche discutendo, su questo cammino. Enrico Peyretti

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