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sabato 19 novembre 2011

L'impegno nella solitudine (Adriana Zarri)


di Filippo La Porta


in “Il Sole 24 Ore” del 23 ottobre 2011


Siamo sicuri che il ritiro e la solitudine ci portino sempre lontano dagli altri, dalla società? Un eremo non è un guscio di lumaca di Adriana Zarri (con contributi di Rossana Rossanda), meditazioni di una donna - intellettuale, teologa, protagonista di battaglie civili (divorzio, aborto), polemista sui media - che, pur senza farsi suora, ha scelto dal 1975 l'eremitaggio in una cascina
abbandonata di campagna, ci invita a riformulare il vetusto concetto di "impegno" e ci costringe a riflettere su un bisogno umano solitamente negletto, quello di appartarsi. Vediamo le due questioni, benché tra loro intrecciate, separatamente, senza soffermarci sui complicati rapporti tra le pratiche di preghiera indicate nel libro e la liturgia ufficiale.


L'autrice, scomparsa giusto un anno fa, ci comunica di vivere la fraternità in solitudine. Apparentemente si tratta di una dichiarazione contraddittoria, o quantomeno azzardata. È un programma? L'enunciazione di un buon proposito? A me sembra semplicemente il resoconto di un'esperienza personale. Con l'eremitaggio ha appreso in primo luogo una cosa: non pensare al dopo ma «consegnarsi totalmente» a quanto si sta facendo. Attraverso il lavoro quotidiano (è contadina, casalinga e scrittrice) e attraverso il contatto con gli animali, con le piante, eccetera si lascia «impastare di mondo», si dispone a una «accoglienza universale». E anzi, come sottolinea, ha imparato a collocarsi nel suo vero posto, e dunque a realizzarsi «non solo nella comunità umana ma nella più vasta comunione cosmica». Ora, chi deve essere considerato più "impegnato"? Chi passa la vita a organizzare e mobilitare gli altri, a collegare tra loro le minoranze attive, a sentirsi così sempre "protagonista" della Storia, magari più fedele a un Progetto che al Prossimo, oppure chi riscopre la relazione con l'altro in una solitudine («piena di presenze») che affida al caso visite e incontri imprevisti. I mutamenti reali infatti sono quasi sempre quelli inconsapevoli e non voluti: «la morte non si programma, si aspetta quietamente, come si aspetta la vita». Adriana Zarri,
scegliendo questa forma particolare di monachesimo laico, ispirato agli anacoreti (ma senza l'alone penitenziale), non si è voluta chiudere in una tomba: piuttosto riceve amici e conoscenti (specie nella seconda dimora, a Cà Sàssino), intrattiene scambi epistolari, incontra persone quando va al
mercato in automobile... Il suo stile di vita rifugge qualsiasi eccezionalità "esemplare" o le bizzarrie spesso associate alla santità. La scelta del deserto (relativo) e della povertà aiuta Adriana Zarri a «far emergere il male del mondo», per analizzarlo e combatterlo più lucidamente. In ciò ha forse
interpretato al meglio l'idea di impegno, che è soprattutto verso di sé e verso la verità: soltanto se uno riesce a immergersi dentro il proprio io può trovare - a una profondità insondabile - il noi, e così percepire la tangibile unità con gli altri, e all'interno di questa la dimensione della polis.


E veniamo al bisogno cui accennavo all'inizio. In L'uomo che non credeva in Dio Eugenio Scalfari osserva a un certo punto che l'ingiustizia più intollerabile è il non essere riconosciuti. Va bene, soltanto il riconoscimento sociale fonda il valore dell'essere umano, almeno all'interno di una
dialettica formulata compiutamente dalla filosofia idealistica. Ma il  «riconoscimento» è poi degenerato in un ansia di visibilità a tutti i costi, mescolandosi al desiderio di potere e di successo. E se invece il valore dell'essere umano dipendesse da altro, da una capacità di relazione con se stessi e con il tutto, con quella più vasta (e misteriosa) «comunione cosmica»? E se dipendesse dall'esperienza dell'eterno, ovviamente «come un uomo può farla sulla terra»? Nicola Chiaromonte, anche lui come Scalfari, esponente - assai più radicale - di quella Terza Forza politicamente sconfitta nella nostra storia, sosteneva che occorre riconoscere il diritto a «vivere nascosti», un tempo considerato principio di saggezza e oggi perseguitato fino nell'intimo dalla invadenza dei media. E, ovviamente, vivere nascosti, senza perciò doversi sentire emarginati o stravaganti o colpevolmente asociali. L'eremitaggio di Henry David Thoreau - durato un paio di anni e assolutamente laico - testimoniato in Walden - esprimeva una semplificazione gioiosa della vita, la scelta di una essenzialità che non è mai percepita come privazione. Ora, a scegliere di vivere nascosto è anzitutto il singolo, non un gruppo organizzato. È al livello del singolo che si gioca dunque la «salvezza», la capacità di donare un senso all'esistenza, di sperimentare la «spontaneità del bene», come dice Adriana Zarri, «dopo aver provato l'istintività del male».


Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi,Torino, pagg. 268. € 19,50


tratto da http://www.teologhe.org/index.php?option=com_weblinks&catid=190&Itemid=226

2 commenti:

Acquacluster ha detto...

Ciao, sono arrivata qui a partire dalla tua segnalazione sulla mailing list "sullasoglia".
Complimenti per il blog!
Francesca

Roberto Lepera ha detto...

Sul tema della solitudine, vista come creatrice d'armonia con l'esistente, suggerisco di leggere questo articolo, ben scritto, sullo scrittore turco Orhan Pamuk:
Orhan Pamuk, elogio della solitudine

Inoltre, da ascoltare "Elogio della solitudine" e "Le maggioranze", discorsi di Faber contenuti nella raccolta "Ed avevamo gli occhi troppo belli".

Salute.
Roberto