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venerdì 25 novembre 2011


Lettere dal silenzio - prefazione di Duccio Demetrio



In occasione della giornata Internazionale per l'Eliminazione della violenza contro le donne che ricorre il 25 novembre, pubblichiamo la prefazione di Duccio Demetrio al libro


Lettere dal silenzio


Storie di accoglienza e assistenza sanitaria di donne che hanno subito violenza, di Massimo Michele Greco, uscito recentemente.


Il problema è riuscire a vedere quello che già c’è.
L’esperienza è ciò che è già successo.
L’esperienza, come l’amore e l’odio, comincia a casa;
in camera da letto, in cucina.


Hanif Kureishi, (1999), Da dove vengono le storie? Riflessioni sulla scrittura, Bompiani, Milano


L’esperienza della violenza abita ogni luogo, non risparmia nessuno. Si insinua dove crediamo di non vederla, di non infliggerla. Talvolta è strisciante e silenziosa, talaltra si accanisce con fragore sulla carne, sugli oggetti, sul visibile e l’invisibile di cui ciascuno di noi è fatto. Schianta e abbruttisce la vittima e l’aggressore. Si scatena nelle stanze private, all’aperto, negli spazi che dovrebbero accudire, curare, guarire. Di tutto facciamo per fingere che non esista, che sia stata domata. La cronaca nera diventa eccitante soltanto ormai, se le mani dell’assassino, se chi violenta la libertà, il diritto, la giustizia nelle sale di velluto del potere, escogita modi nuovi per farne commercio. Usarla a proprio vantaggio. I raptus, hanno sempre una premeditazione. Che si è silenziosamente nutrita di violenze di ogni specie. Covando vendette e stili di vita a propensione aggressiva, pur ineccepibili. I raptus sono abusi che covano sotto la pelle, nella storia della gente che crede di essersene dimenticata. La violenza è bianca, non è soltanto corrusca. Viene disinfettata e ripulita, a dovizia per coprire le sue impronte: perché non turbi le nostre coscienze o mostrata nelle sue oscenità per eccitare i nostri giorni annoiati. Assassini non sono soltanto chi uccide. Sono i giorni spesi a vendere il nulla, a comprare la felicità e a rivenderla a torturarci. Se la violenza palese possiamo tentare di fermarla, opponendoci ad essa con la forza della legalità; l’altra, la brutalità coperta da ogni artista, artigiano, truccatore addetto alle finzioni, è subdola. Tanto più, per questo, si presenta dotata di maggiore penetrazione educativa; si presenta performativa, come cultura quotidiana che per sopravvivere dobbiamo accettare e respirare. La violenza non comunica infatti soltanto attraverso la profanazione dei corpi. É tale anche quando li ignora, li rende invisibili, li tacita. Impedisce loro ogni racconto. Non li racconta, non sa mostrare un bagliore di misericordia. Ma, in tal modo, persino l’esperienza della violenza, che lascia tracce indelebili nel corpo e nell’animo, finisce col perdere ogni senso, non emerge da se stessa. Non ci è dato ex-perirla. Traendola fuori dalle cortine fumogene, dagli incensi delle apparenze, per mostrarla in tutta la sua scomoda, impudica, verità.


Come ci dice lo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi, se non vuoi vedere quello che c’è sotto i tuoi occhi, in fondo, non esiste, né esisterà mai. Rapidamente ingoiato da un oblio che anticipa le cose e gli eventi. Non cibandosi solamente di passato. La fuga dalla esperienza, soprattutto della violenza, la virtualizzazione spinta nella quale galleggiamo finti incorporei, connota il nostro tempo, anche perché non riusciamo più a narrarla in prima persona. Non soltanto per prudenza, paura del ricatto e della ritorsione. Siamo rispetto a tutto a tal punto narrati non per amicizia, piuttosto per spersonalizzare fisicità e coscienze, da essere tornati in una società ad oralità “mutila”. Certamente per censura, in una miriade di casi, ma per disabitudine a raccontare in altrettanti. Poiché se non c’è esperienza vissuta, viene meno la capacità di dotarsi delle risorse minime per raccontare quanto ci accade. Per essere quei “narratori feriti”, che non rinunciano ad entrare nelle loro piaghe. Non solo violenza, però: anche il meglio, il buono, della vita, l’amore profondo, l’amicizia si rassegnano alle nostre incapacità.


Ecco perché libri come questo, che fanno narrare le molteplici orme della violenza sulle donne, nulla tacendo per altro della reciproca vessazione tra i sessi nella loro millenaria (la peggiore) storia, ci aiutano a ritrovare la via di una parola oggi così in disuso. Non c’è esperienza se non possiamo guardarla in volto. Quale esso sia, e – ancor meno – essa è nelle condizioni di manifestarsi, costruita e decostruita dal linguaggio, se non diventa storia, racconto e soprattutto scrittura autobiografica. Nondimeno coraggio nell’alzare la voce, nel dispiegarla finalmente rendendo più durevoli le parole, grazie ad un’umile penna tra le dita. Soprattutto se qualcuno ti aiuta a sorreggerla, ci tiene la mano come alla bambina oltraggiata che sei tornata ad essere. Spiegandoti la sua importanza vitale, non fittizia o superflua, ti pone domande discrete che ti incoraggino ad esporre, ad aver fiducia in quello che vai facendo seppur inusuale. Tanto più se saprà garantirti che quanto scriverai non si perderà nel vento, volando via come le parole che non hanno peso. Quelle scritte invece lo hanno ben di più. La scrittura, che sa portarci altrove nella leggerezza della poesia, ha anche la pesantezza della pietra. Mai da scagliare contro chicchessia per chi aborra ogni tipo di violenza. Da lasciare incisa con ogni parola capace di evocare la tragicità del mondo ed anche le vie di salvezza. Del resto, su quelle superfici si iniziò a scrivere: ad inventare graffiti che non si disperdessero; tracciando solchi capaci di resistere al tempo e di tramandare esperienza. Mostrandoci che quella pressione della mano è gesto che sa raccontare anche verità, le più personali e segrete, per trasformarle in coralità di denuncia.


Le testimonianze qui raccolte, protette dalla pagine di questa ricerca dall’indubbio valore etico, ancora una volta, dimostrano che contro la violenza, il maltrattamento, il sopruso, la partecipazione – e un libro come


questo ci invita a cercarla in ogni dove – è l’unica via giusta. Perché partecipando, scambiandosi storie, altre ne nascono sempre e si potranno scrivere, sottraendo il male alla sua beffarda banalità.


Duccio Demetrio

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