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mercoledì 15 giugno 2011

Resistenza e pace: le camere sfiduciate

Tra le elezioni amministrative di maggio e i referendum del 12 e 13 giugno si è consumato il 25 luglio del regime. A tutti si è reso manifesto che il processo di liberazione non si è arrestato: la gente prende in  mano la sua vita; la democrazia, solo che le vengano dati gli strumenti per funzionare, resiste, e proprio nel giorno in cui Berlusconi impegnava le scelte future dell’Italia promettendo a Netanyahu che si sarebbe opposta alla nascita di uno Stato palestinese non consentita da Israele, il governo precipitava in una gravissima crisi.
Sono almeno quattro i significati travolgenti del voto di giugno.
Il primo significato è naturalmente quello che riguarda i quesiti proposti. Sull’acqua avevano detto gli oppositori dei referendum che essa era e rimaneva pubblica, e perciò il voto era inutile; il solo problema era a chi, all’uscita dal rubinetto, si dovesse pagare. Gli elettori ne hanno dedotto che se l’acqua è pubblica, la sua appropriazione è un peculato; lo diceva anche San Tommaso che “peculatus est furtum rei communis”; e perciò hanno votato contro questo peculato.
Sulle centrali nucleari gli oppositori del referendum avevano fatto finta  di toglierle di mezzo; gli elettori hanno capito che se il nucleare si poteva fare solo a patto di far credere ai cittadini che non si facesse, i cittadini avevano il dovere di non farsi ingannare e di dire chiaro e tondo che Chernobyl e Fukushima già bastano.
Sul legittimo impedimento gli elettori hanno colpito al cuore l’ideologia berlusconiana dell’uomo solo che incorpora in se stesso tutto il popolo, e che perciò è al di sopra di tutti, incensurabile e non perseguibile. Sei uno come noi, gli hanno detto. E se molto gli avevano finora permesso, ciò che non gli hanno perdonato (compresi moltissimi elettori del centro-destra) è che egli danzi il bunga-bunga sulle rovine di una generazione, sui barconi di profughi che affondano nel Mediterraneo e su una devastante guerra alla Libia a cui, fedifrago, aveva promesso non belligeranza ed eterna amicizia.
Il secondo significato del voto referendario è la novità di un grande impegno dei giovani, che attraverso la loro passione e i mezzi nuovi che sanno usare, hanno contagiato il Paese dell’emozione per i grandi beni comuni che erano in gioco, e hanno costruito quasi da soli il risultato.
Il terzo significato del voto è che esso segnala il gran ritorno dei cattolici alla politica. Non quelli delle istituzioni che invischiati nella palude dei blocchi contrapposti più di tanto non possono fare. Ma i cattolici della base che dimostrano la loro freschezza e dedizione, sposando la causa dell’acqua, della salvaguardia del creato, della giustizia, che militano nei movimenti ecologici e pacifisti, che operano nelle Caritas, che animano il volontariato, che credono all’etica sia pubblica che privata, che votano alle amministrative per candidati credibili e mandano all’aria coi referendum una classe di governo priva di principi, trasformista e politicamente anarchica. Che questi cattolici abbiano questa volta trovato una sponda nella Chiesa e nella Caritas di Milano, nel presidente della CEI e addirittura nel Papa, li ha resi liberi e finalmente efficaci.
Il quarto significato è quello di una sfiducia inflitta alle Camere. Nel nostro sistema il governo è sfiduciato dal Parlamento, e il Parlamento è sfiduciato dal corpo elettorale (per questo ci vuole il quorum). Se le Camere vengono meno al loro compito e tengono in vita un governo improponibile, l’elettorato supplisce a questa inadempienza e sfiducia governo e Camere. Ciò tanto più chiaramente è avvenuto in questo caso, quando il Parlamento si era identificato in ogni modo con le leggi che il popolo ha abrogato: tentando la truffa sul nucleare, votando in tutte le salse il lodo Alfano e le altre leggi ad personam, insidiando il referendum sull’acqua e facendo della corruzione di una minorenne un importante affare di Stato di rilievo internazionale. L’elettorato, contrapponendosi alla maggioranza parlamentare, ha denunciato che queste Camere non lo rappresentano; né d’altronde esse lo potrebbero, per come sono state elette, per la non corrispondenza tra voti e seggi, per i parlamentari designati dall’alto, per la corruzione sopravvenuta con l’acquisto mediante prebende e onori di deputati di rincalzo in sostituzione di quelli usciti dalla maggioranza.
Questo divario tra Parlamento e Paese dev’essere quanto prima colmato. La sfiducia che, nelle forme costituzionalmente previste, l’elettorato ha espresso alle Camere dovrebbe comportare il loro immediato scioglimento. Non c’è affatto scritto nella Costituzione che le Camere possono essere sciolte solo quando non riescono a tenere in piedi un governo. In effetti, con queste Camere non si può fare più niente: né un’azione plausibile di governo, né tanto meno una nuova legge elettorale. Per far questo ci vuole ormai un nuovo Parlamento, e la maggioranza dei cittadini è ansiosa di eleggerlo.
                                                                 Raniero La Valle 


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