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domenica 27 marzo 2011

DUE TESTI SULL'ASSASSINIO DI MONSIGNOR ROMERO

UN MISTICO COI PIEDI PER TERRA

«Dicono che eri un uomo religioso. Io dico che eri di giustizia e di pace, che eri l’orazione di ogni uomo che non sa pregare; di quello che ha appena la forza di lottare...». Inizia con queste parole il canto che Manuel Contreras ha recentemente dedicato a Mons. Romero, in occasione del XXX anniversario del suo martirio. Il giovane cantautore salvadoregno ha voluto così dire la sua su una delle questioni che da quasi trenta’anni infiamma il dibattito sulla figura dell’arcivescovo di San Salvador e cioè se la sua azione fu esclusivamente di carattere religioso e pastorale o ebbe anche una chiara e deliberata connotazione sciale e politica. La reciproca esclusione tra i due aspetti – quello spirituale e quello politico – sembrerebbe, infatti, un presupposto irrinunciabile per quanti urlano alla strumentalizzazione della figura di questo vescovo, da parte delle forze della sinistra salvadoregna. In realtà, la questione travalica ormai il piccolo paese centroamericano, non soltanto perché ha comportato un certo ritardo nello svolgersi del processo canonico – in virtù del quale i salvadoregni attendono da decenni di vedere riconosciuta anche dalla Chiesa di Roma la santità del loro pastore (che loro invece hanno proclamato da subito “San Romero d’America e martire della giustizia”) – ma anche perché tocca la consapevolezza stessa che la Chiesa ha della propria missione. In altre parole: la missione della Chiesa è, e deve essere, di natura “esclusivamente” spirituale o proprio per questo anche sociale e politica? La questione, si capisce, è complessa, perché obbliga anzitutto a porsi un altro interrogativo: cosa significa, cristianamente parlando, il termine “spirituale”? Vale a dire, una spiritualità avulsa dalla storia, che non pretenderebbe di trasformare la realtà sociale e politica, in ordine alla giustizia del Regno di Dio, potrebbe davvero dirsi “cristiana”?... Non dimentichiamo, infine, come su tutto ciò pesi lo spettro della Teologia della liberazione o meglio della posizione assunta dal Vaticano nei suoi confronti. Da un punto di vista strettamente biblico, infatti, non sembrerebbero esserci problemi, se persino uno dei teologi più affermati del ‘900, H. Urs von Balthasar, in occasione della riunione della Commissione teologica internazionale del 1976, così scriveva: «L’aspetto religioso in Israele rimane sempre politico e il politico religioso, fin nelle viscere stesse della sua speranza escatologica... questo monismo di religione-politica, che è essenzialmente costitutivo per Israele, lo è stato e continua ad esserlo anche per la Chiesa, sempre e in tutte le sue forme»[1]. Del resto, dagli stessi evangeli appare chiaramente come Gesù di Nazareth – che certo non era e non voleva essere un politico – subì un processo politico di fronte a Pilato, al termine del quale venne giustiziato col supplizio riservato ai rivoltosi e ai sobillatori politici. E ancora, il Concilio Vaticano II, nella costituzione Gaudium et Spes, dichiara che: «Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica»... seguito nel 1968 dalla II Conferenza dell’Episcopato latinoamericano, riunita a Medellín in Colombia, che assumendo quella che passerà alla storia come «l’opzione per i poveri», farà una critica puntuale delle ingiustizie strutturali dei sistemi economici e politici vigenti, ribadendo il diritto degli oppressi a lottare per la propria liberazione. Ebbene, Romero conosceva molto bene quei testi, che riteneva suo dovere – in quanto pastore – diffondere ed attuare. La sua biografia però ci rivela come in realtà le radici ultime di questa profonda e reciproca compenetrazione tra spirituale, sociale e politico nella sua esperienza vadano ricercate con molto anticipo sullo svolgersi di questi eventi epocali. E soprattutto come vadano ricercate negli ambiti più insospettabili della sua devozione e pratica pastorale. Da buon salvadoregno, infatti, era stato educato fin dal seminario minore alla devozione alla Vergine della Pace di San Miguel e al Sacro Cuore di Gesù. In seguito, a Roma, dove studiò teologia dal 1937 al 1943, incontrò la spiritualità ignaziana – in particolare gli Esercizi spirituali, che divennero una pratica abituale per lui – e la mistica (con relativa ascesi) del sacrificio eucaristico proposta dal monaco belga Dom Columba Marmión. Tutto questo si trasformò non soltanto in ore di orazione personale, ma soprattutto di pratica pastorale: nelle adorazioni eucaristiche e confessioni che propose, non appena ordinato sacerdote, ai fedeli delle diverse comunità che gli furono contemporaneamente affidate. Di conseguenza, lo portò anche a conoscere più profondamente la situazione del suo popolo: la miseria tanto materiale quanto morale in cui versava quella gente, a causa di un antico sistema capitalistico-feudatario di sfruttamento, ma anche del carattere marcatamente anticlericale della conduzione dello Stato. Non dimentichiamo che tutta l’America Centrale in quegli anni aveva subito il fascino delle idee massoniche e liberali propugnate dalla rivoluzione messicana. Così, se per i primi anni la sua azione non si discostò da una buona pastorale di formazione e solidarietà, quando fu nominato vescovo titolare – a Santiago de Maria, prima ancora che a San Salvador – non poté disattendere nel fondo della propria coscienza l’appello di quel Dio che sempre “ascolta il lamento del suo popolo”. Non sarebbe pertanto forzato accostare la figura di questo vescovo salvadoregno a quella del grande Mosè. Come lui, infatti, avrebbe continuato più che volentieri a pascolare il suo piccolo gregge, ai margini del paese (in san Miguel o a Santiago, entrambi nella zona orientale d’El Salvador)... lontano dai centri che contano. Ma proprio come lui fu portato, suo malgrado, a scontrarsi coi potenti, nel tentativo di liberare dal giogo dell’oppressione la sua gente. E lo fece con lo stesso stile. Se, infatti, non si vuole fraintendere la natura genuina del suo ministero, non va dimenticato come anche lui visse costantemente “al cospetto di Dio”. Le più forti denunce politiche (contro il governo, per la repressione; contro l’esercito per le continue sparizioni; contro la Corte suprema di giustizia, per l’iniquità che tollerava nelle varie Camere penali... fino al grande appello all’obiezione di coscienza rivolto ai militari, il giorno prima del suo assassinio) maturarono proprio durante ore di raccoglimento davanti al Santissimo Sacramento. Divenne persino abituale vederlo uscire e abbandonare tutti, nel mezzo delle sessioni più drammatiche della Conferenza episcopale salvadoregna, per andare “a chiedere consiglio” in cappella. Ma i consigli che lì riceveva spesso non piacevano ai potenti, che perciò lo accusavano sempre più d’essere politicizzato. Un giorno il Segretario di Stato vaticano gli rivelò che persino l’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede si era lamentato della posizione filo-rivoluzionaria dell’arcivescovo di San Salvador. A questa valanga di accuse, Romero rispose risolutamente, durante un’omelia, commentando la lettera di San Giacomo: «È inconcepibile che qualcuno si dica “cristiano” e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa ai poveri. Questo non è cristianesimo!... Molti, carissimi fratelli, credono che quando la Chiesa dice “in favore dei poveri”, stia diventando comunista, stia facendo politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata la dottrina di sempre. La lettura di oggi non è stata scritta nel 1979. San Giacomo scrisse venti secoli fa. Succede invece che noi, cristiani di oggi, ci siamo dimenticati delle letture che devono reggere la vita dei cristiani»[2]... Quelli che invece compresero sempre magnificamente la natura del suo ministero e della sua preghiera furono ancora una volta i semplici; forse anche perché non avevano alcun bisogno di ridurre la sua figura profetica a quella di un santino della spiritualità. «Ah Romero, uomo d’amore sincero, che questo popolo continui ad essere la tua orazione» continua la canzone di Contreras... E davvero nella preghiera Romero portava tutto il popolo al cospetto di Dio. Il suo Sinai era più modestamente la cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, dove abitava e che alla fine divenne l’altare del suo sacrificio. Ma divenne anche la cattedra più vera del suo episcopato, quella da cui continua a insegnare a quanti vogliono ascoltarlo che per «cercare le cose di lassù» (Col 3,1) dobbiamo tenere i piedi ben piantati sulla terra.    

Alberto Vitali
  



[1] H. Urs von Balthasar, in Comisión teológica internacional, Teología de la liberación, Madrid 1978, p. 170
[2] Su Pensamiento, vol. VII, p. 232

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