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mercoledì 16 giugno 2010

Il racconto che leggete di seguito è un’anticipazione di

Permesso di soggiorno. Gli scrittori stranieri raccontano l’Italia

(Ediesse). Il volume raccoglie i racconti dei migliori scrittori stranieri che vivono nel nostro paese

di Laila Wadia

Ogni Natale torniamo in India, al villaggio dei miei genitori. Ad aspettarci con occhi grandi come lune piene ci sono mille parenti: i nonni materni e paterni, una sfilza di zie, zii e un infinito numero di cugini. Mamma comincia a preparare le valigie verso la fine di ottobre. Lava qualche mio vestito smesso, lo stira ben bene e lo chiude in un sacchetto di nylon, raccomandandomi vivamente di non spifferare che si tratta di un indumento usato. Compera anche un mucchio di cose alla fiera di San Nicolò: cioccolatini, torrone, spugne da cucina, tovaglie in plastica, fiori finti e pennarelli. Aspetta che i panettoni siano in offerta 3 per 2 prima di saccheggiare la Coop. "Guarda che belle tazzine" – mi mostra con orgoglio l’ultimo dei suoi affari. Sei tazzine con fiorellini per 99 centesimi. Annuisco ma in realtà non riesco a capire a cosa serva tutta quella paccottiglia che si accumula per due mesi sotto al divano che è il mio letto.

"Ma sono così poveri da non avere nemmeno delle gomme da cancellare?", domando sbigottita quando la mamma si mette a tagliare delle mie vecchie gomme fino a farle tornare squadrate. Con tono severo la mamma mi rammenta che non tutti i bambini indiani sono fortunati come me. È una frase che sento almeno due volte al giorno da ottobre a fine gennaio. Io non ci faccio molto caso alla mia fortuna.

Nata e cresciuta a Trieste, sono una ragazza di dieci anni come tante altre. Vado a scuola, guardo la tele, gioco con le mie amiche. Ne ho di tutte le razze, ma noi non diamo tanta importanza al colore della pelle e non stiamo lì dalla mattina alla sera a rammentarci di quanto siamo fortunate perché abbiamo zaini nuovi all’inizio di ogni anno scolastico e gomme da cancellare a volontà. Certo, qualche mia compagna di classe ha una casa più grande e più bella della mia. Ecco, forse l’unica cosa che desidererei avere è una camera da letto tutta per me. Non che mi dispiaccia dormire nel tinello. Mi piace arrotolarmi nel piumino sul divano letto come un baco da seta quando fa freddo. Mi piace il brivido che mi percorre la schiena quando papà torna dal lavoro in mezzo alla notte. Dalla porta entra un’ondata di vento gelido che viene subito controbilanciata dal caldo abbraccio di mio padre. Apro un occhio, mi accerto che sia proprio lui e non un sogno, e mi riaddormento con un sorriso sulle labbra.

A volte mi sveglio del tutto e allora lui si mette vicino a me con un piatto di pasta riscaldata in mano e mi parla del suo lavoro oppure mi racconta una storiella indiana. Papà fa sempre i turni di notte perché si guadagna di più e abbiamo bisogno di quei soldi per permetterci di tornare a casa una volta all’anno. Se dovessi scegliere, preferirei averlo a casa di sera e rinunciare ad andare a trovare i parenti in India, ma non gliel’ho mai confessato. Siamo ai primi di dicembre e la valigia è insolitamente vuota. Domandare il perché non mi conviene perché significherebbe sorbire delle ramanzine su come non tengo bene i vestiti e le scarpe che possono servire ai miei cugini poveri.

Alla fiera di San Nicolò non giriamo per le bancarelle in cerca dell’ultima novità per le luci dell’albero. Nessuno dei nostri parenti in India è cattolico e credo che non abbiano mai visto un albero di Natale, ma poiché possiamo tornare al villaggio solo a dicembre, festeggiamo comunque il fatto di stare tutti insieme addobbando con delle luci il tronco di un albero di cocco. È diventata l’attrazione del villaggio perché ogni anno portiamo delle luci diverse. La volta in cui comprammo quelle con la musica di Tu scendi dalle stelle nessuno volle tornare a casa! Mamma me lo confessa l’ultimo giorno di scuola. "Siamo diventati poveri, Gopica, siamo diventati poveri", la sua voce non tradisce la sua preoccupazione, le sue mani sì… Tremano come dei fazzolettini nel vento. Non capisco cosa vuol dire. A me sembra tutto come prima. Il frigorifero è pieno, la dispensa pure, mamma è sempre lì a controllare che l’armadio sia pieno di detersivi, papà rientra sempre verso le quattro…

È papà che mi annuncia che non andremo in India. È lui che dice «lascia stare» quando gli dico che ho visto dei panettoni a metà prezzo in via Battisti. È lui a spiegarmi cosa significhi "licenziamento". Non andrà più a lavorare alla Ispet. L’azienda è fallita e centocinquanta operai come lui staranno a casa per un bel po’. "Non aspettarti granché come regalo quest’anno", mi avverte la mamma. Non stendo mai una lista, ma i miei sanno benissimo quello che desidero e puntualmente me lo trovo accanto al letto il 25 mattina. Da anni il mio desiderio più ardente era quello di avere un cagnolino, ma sapevo che non era possibile perché chi l’avrebbe accudito durante la nostra permanenza in India? Mi dovevo accontentare di tanti cagnolini di peluche; ne avevo almeno dieci.

Era una sensazione strana stare a casa mia a Trieste per le feste. Potevo alzarmi tardi senza venir svegliata dal belare delle pecore del villaggio. Guardavo la tv invece di andare giù allo stagno a nuotare o a pescare con i miei cugini. Mangiavo gli spaghetti col pomodoro con la forchetta invece del riso con le mani. E soprattutto mamma e papà erano sempre intorno a me invece di essere indaffarati a far visita a qualche parente. E così facemmo il nostro primo vero pranzo di Natale. Mangiammo un panettone tutto intero e mi fu permesso anche di bere un sorso di vino dolce. Poi mamma mi diede il mio regalo. Era un libro di origami. Passammo l’intero pomeriggio a costruire degli oggetti di carta seguendo le istruzioni. Mamma fece una rosa e una sedia. Papà mi aiutò a costruire un aeroplano e una rana salterellante. Verso le quattro qualcuno suonò alla porta. "Sarà per te", mamma disse a mio padre. Oh no, pensai, magari sul più bello deve tornare al lavoro! "È per te, Gopica", disse papà, aprendo la porta. Corsi a vedere chi fosse e mi salutò scodinzolando un piccolissimo cagnolino bianco con un fiocco rosa intorno al collo. Guardai i miei genitori incredula. Era uno scherzo? "Allora, vuoi che prenda freddo?", chiese mio padre. "Non dai il benvenuto a Natalino?". Natalino! Presi la creatura tra le braccia e non so chi tremava di più, lui o io. "Ma che significa?", chiesi, ancora scettica. "Che siamo diventati poveri", sentii le parole della mamma in sottofondo. "Ma dai, dai", papà cercò di sdrammatizzare. Natalino, abbaiando, lo assecondò. Fu il più bel Natale della mia vita. Forse eravamo diventati poveri, ma io non ero mai stata così felice.

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15/06/2010 15:46



Giovanni Falcetta

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