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domenica 8 febbraio 2009

LA VERITA' CHE SCOTTA SUI PARTITI

“Per noi la questione morale è centrale», ha affermato Walter Veltroni in un recente discorso, da cui si percepisce la volontà sincera di recuperare quell’etica esemplare di governo che ha caratterizzato tante amministrazioni “rosse”…”Inizia così un brillante saggio di Mario Pirani in “Repubblica” del 6.1.2009“…Eppure temo che il suo impegno di ritrovare trasparenza e buona condotta nella conduzione della cosa pubblica, non andrà lontano, se il terreno inquinato dove la degenerazione alligna non verrà individuato, perimetrato e, infine, bonificato. Questa analisi veritiera e impietosa non è stata ancora tentata, forse per la spiegabile ritrosia nell’affrontarne le dirompenti conseguenze che inciderebbero nella carne viva del partito, nel suo sistema di potere, negli equilibri interni. Ma cosa volete-di più? dirà qualcuno, citando magari un altro passaggio del discorso del leader Pd laddove dichiara: «Non possiamo non vedere come nel nostro partito si siano insinuati stili politici, metodi di gestione, modalità di rapporto con la società civile e di relazione con gli interessi privati, assai diversi da quelli che devono essere i nostri... Da diversi anni a questa parte è cresciuta attorno a tutti i partiti anche un’area grigia e paludosa nella quale la trasparenza è diventata opacità, la competenza professionalismo politico e carrierismo arrogante, l’innovazione gestione cinica di un potere fine a se stesso». Parole sante ma non così analitiche come quelle che Enrico Berlinguer pronunciò in una intervista del 1981, rievocata in un articolo di Eugenio Scalfari di domenica 28 dicembre. E’ pur vero che il leader scomparso si riferiva agli altri partiti e non al suo nel denunciare l’occupazione di tutti gli spazi pubblici, ma il valore paradossale di quell’intervista sta nell’esattezza di una diagnosi inascoltata ma che si rivela, purtroppo, non solo ancora valida ma estendibile anche agli eredi, ancorché mescolati e riciclati, di quel partito che allora si considerava “diverso” e, in una certa misura, lo era. «Hanno occupato - denunciava Berlinguer - gli enti sociali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche,gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali...». Ora sono passati ventisette anni, c’è stata di mezzo Tangentopoli e gli opinionisti, tutti contenti, hanno spiegato che non è la stessa cosa perché ormai infettati son tutti, nessuno escluso. Dunque, mal comune mezzo gaudio. Così i cittadini, delusi oltre ogni dire, ma altresì memori come elefanti, non credono più neanche alla più sincera delle confessioni. Occorrerebbero fatti ma di questi c’è penuria estrema e la credibilità delle parole e di chi le pronuncia non ha più presa. Peraltro il “mal comune” affligge più il centro sinistra, in ragione del fatto che si credeva vaccinato, che la destra, da sempre scetticamente mitridatizzata di fronte alle idealizzazioni dell’etica e alle sue inevitabili cadute. Qui si annida la malattia del Pd, il diradarsi del consenso, l’accrescersi delle astensioni che potrebbe domani preludere a un accorrere sotto altre bandiere, secondo un copione che chi conosce la Storia può ricordare. I fatti dovrebbero partire dalla consapevolezza che la questione morale, allorché si estende dai singoli alle istituzioni, è solo un epifenomeno, un sintomo di un male strutturale su cui la corruzione, presto o tardi allignerà. E’, dunque, dalle fondamenta che bisogna partire, approfondendo l’analisi di Berlinguer e individuando le ragioni di quell’espandersi del potere politico dagli ambiti suoi propri (il Parlamento, l’Esecutivo, i consigli elettivi e le giunte degli enti regionali e locali) alla prorompente occupazione e gestione diretta di ogni spazio pubblico e parapubblico. Al punto che, quando questo spazio è apparso insufficiente per accontentare la colonizzazione forzata messa in atto dalle orde crescenti dei nuovi «conquistadores», se ne sono inventati dei nuovi. Sono sorti così negli anni recenti migliaia di enti inutili, organismi di presunte promozioni, fotocopie di comodo degli assessorati già esistenti, duplicati di funzioni e quant’altro l’inventiva partitocratica è riuscita ad immaginare. Questa “razza” partitocratica, impropriamente definita classe dirigente, è paragonabile ad una pianta parassitaria infestante che ha trovato un particolare terreno di coltura nel regionalismo spurio e nel localismo trionfante, frutto della riforma del Titolo V della Costituzione. Il federalismo sconnesso che ne è seguito e che perverrà al suo massimo quando il resto della riforma andrà in porto, con compiacimento massimo dei suoi autori e fruitori, renderà ancor più penetranti e abbarbicate le radici della malapianta. Una delle differenze di fondo con la Prima Repubblica sta, infatti, nello spostamento del potere e delle fonti di finanziamento dal centro alla periferia.Se allora i colpi portati ai vertici della Dc, del Psi e dei partiti minori, condussero alla loro scomparsa, oggi il sistema nel suo assieme è più resistente e incollato a tutta la realtà geopolitica del Paese. Non ci si trova solo di fronte a singoli filoni di malaffare o a centri specifici di corruzione ma ad un sistema organico, inscindibile dal sistema politico. Una “razza” che conta ormai centinaia di migliaia, forse un milione di individui, subentrati ai vecchi apparati che hanno soppiantato, sostituito e moltiplicato attraverso l’esercizio in prima persona della gestione tecnica e amministrativa della sfera pubblica allargata. E’ una “razza” che si riproduce per cooptazione, per partenogenesi, per agnizione riconoscente capace di regolare le interne gerarchie con leggi elettorali ferree che non consentono intrusioni. Dunque, niente primarie autentiche ma farse propagandistiche, niente candidature scomode ma regia perfetta dell’ordine prestabilito, devoluta a pochi capi branco, niente congressi rissosi, vecchio stile, ma armoniose cerimonie. Sua caratteristica precipua è la naturale allergia per la professionalità competitiva, la valenza tecnica, la qualità culturale. Traendo la propria ragion d’essere dall’esercizio della macchina politica, intesa come strumento di potere e per il potere, ed avendone esteso l’utilizzazione molto oltre il dovuto, ne consegue che le competenze vere, attinenti alla funzione di ogni posto ricoperto, rappresentano una contraddizione da cancellare alla radice. Con conseguenze umilianti per milioni di giovani e meno giovani che hanno studiato e si sono preparati inutilmente ad affrontare le scelte professionali, armati solo della loro cultura, capacità e senso dello Stato. L’opinione pubblica percepisce la sostanziale omogeneità dell’universo politico così inteso. L’antipolitica, il grillismo, la silenziosa protesta astensionista, l’accorata delusione di tante persone dabbene sono il frutto di siffatta omogeneità. Per contro le tenzoni elettorali e le polemiche che le precedono e le seguono appaiono come gare fra consimili, armati di marchi concorrenti per accattivarsi, comunque, il mercato politico. Un suk in cui è ormai scontato che prevalga il venditore-acquirente più dotato di animal spirits e più congeniale al comune qualunquismo imperante. Il suo nome è noto. Chi, come il sottoscritto, ha maturato una visione così desolante della realtà italiana, non riesce ad essere ottimista sul futuro prossimo. Eppur tuttavia una speranza di ripresa esiste: essa risiede nel dna non cancellato di quel popolo democratico e repubblicano, memore della nostra Storia e geloso dei valori costituzionali, in non poche occasioni riemerso inopinatamente. Se nel Pd esiste ancora un nucleo, grande o piccolo, in grado di riproporre la liberazione e, per quanto riguarda le amministrazioni riformiste, l’auto liberazione, della cosa pubblica allargata dalla occupazione partitocratica di sinistra e di destra, ebbene questo nucleo può sperare ancora di rovesciare la situazione. Non senza duri scontri all’interno e all’esterno del suo campo d’influenza. Qui è il nodo anche della cosiddetta questione morale. A condizione che la si smetta con la solita solfa delle mele guaste, buttate le quali tornerebbe il sereno. Nessuna mela, sana o guasta, deve essere a disposizione dei politici. Si lasci la loro raccolta e cernita ai contadini.Così come gli ospedali vanno lasciati ai medici, gli enti economici ai veri menager, le istituzioni artistiche ai culturalmente competenti.E così via.”

Gli intellettuali di sinistra, forse per il bruciore delle sconfitte, si stanno svegliando.I più bravi, come Pirani, scrivono articoli chiarissimi sulla situazione e sulla occupazione partitocratica del paese.Le conseguenze sui giovani vengono alla luce, quelle sulle sorti del paese non ci sembrano cogliere la gravità dello stallo.Ci spiace che il ricordo degli accusatori della degenerazione partitocratica si fermi a Berlinguer e non abbia il coraggio di ristampare Aldo Capitini, che scriveva le stesse cose quarant’anni prima e loro non le capivano.A parte la necessità di smantellare le migliaia di enti artificiali creati dai partiti per sistemare amici ed elettori, non crediamo che la soluzione sia solo di dare la sanità ai medici e l’agricoltura ai contadini.Possono guidare le amministrazioni anche i migliori politici, a condizione che siano controllati dal basso con una estesa, informata, protetta partecipazione dei cittadini, ai quali spetti anche il diritto di revoca di ogni tipo di amministratori eletti.

ringrazio l'amico Lanfranco Mercaroni per l'invio del testo

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